È di recente pubblicazione uno studio realizzato da Trucost* e da TEEB** riguardante il capitale naturale a rischio. Il capitale naturale è dato dall’insieme dei beni naturali della terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) e dai relativi servizi ecosistemici che rendono possibile la vita sul nostro pianeta (beni e servizi derivanti dal capitale naturale di cui usufruiscono gli esseri umani Es.: stock ittico, stock forestale).
È stato stimato che il valore del capitale naturale mondiale fosse, nel 2009, pari a 7.300 miliardi di dollari. Quello che sta succedendo attualmente è che si sta distruggendo e danneggiando questo capitale e a farlo sono nella maggior parte dei casi sono le aziende.
Andando ad analizzare nel dettaglio lo studio sul capitale naturale a rischio vediamo che lo studio identifica sei grandi impatti ambientali (uso della terra, consumo dell’acqua, immissioni di gas serra, inquinamento dell’aria, inquinamento della terra e dell’acqua e rifiuti) associandoli a 500 settori lavorativi in tutto il mondo.
I risultati sono interessanti in quanto ciò che emerge è che non sono solo le immissioni di gas serra ad essere elevate e quindi problematiche, ma anche l’uso dell’acqua e del suolo.
- Immissioni di gas serra 38%
- Uso dell’acqua 25%
- Uso del suolo 24%
- Inquinamento dell’aria 7%
- Inquinamento della terra e dell’acqua 5%
- Rifiuti 1 %
Da tale analisi si evince che uso dell’acqua e del suolo non possono essere trascurati in un’ottica di bilancio degli impatti ambientali; è infatti riduttivo e semplicistico ricondurre “l’inquinamento” solo a un conteggio basato sulla CO2.
Dallo studio emerge anche che le quattro industrie meno ecosostenibili sono: l’industria del carbone, l’allevamento dei bovini, la coltivazione di grano e la coltivazione di riso. È interessante notare come 3 su quattro di queste categorie siano legate all’agricoltura e all’allevamento e solo una alla produzione industriale ed energetica.
Questi dati ci fanno notare come, per esempio l’allevamento dei bovini (e non per esempio la produzione dei mobili) stia portando alla distruzione delle foreste.
Il dato di maggior interesse è che se si prendono in considerazione le prime 20 categorie di attività analizzate dallo studio, nessuna di queste sarebbe più redditizia se si dovessero ripagare gli impatti ambientali causati. In particolare è ancora una volta il settore dell’allevamento in sud America quello che avrebbe il maggiore divario tra incassi economici e capitale naturale: nel 2009 il settore dell’allevamento di bestiame incassò 16,6 miliardi di dollari consumando però il capitale naturale per un valore di 353,8 miliardi di dollari.
Chiaramente questi dati dimostrano che “incorporando il capitale naturale nell’economia globale” andremmo incontro “a una rivoluzione economica e ambientale”. Questo ancora non sta avvenendo perché vorrebbe dire che alcune, molte attività industriali e non sarebbero anti-economiche.
Va anche detto che “ignorare il costo del capitale naturale non lo fa scomparire” ma “questi costi sono già pagati dalla società globale e continueranno ad essere pagati dalle generazioni future.
In ogni caso se la situazione non viene affrontata non ci saranno esternalità da pagare, ma i costi verranno interiorizzati ai produttori e ai consumatori attraverso eventi ambientali (siccità, desertificazione, uragani, malattie ecc..)
Tradotto e riadattato da : Guido Scaccabarozzi – Presidente Arbio Italia Onlus – www.arbioperu.org
Fonte: Jeremy Hance, mongabay.com – Natural capital at risk (Trucost, TEEB)
* Agenzia che si occupa di valutare le conseguenze economiche legate alle risorse naturali
** The Economics of Ecosystems and Biodiversity: organizzazione che studia i benefici economici del mantenimento della biodiversità.